Fiducia, un sentimento tutto umano che ci induce a riporre aspettative e speranze in noi stessi, negli altri e nel futuro; un sentimento talmente impetuoso che può dare origine a un’istituzione scientifica unica e irrepetibile: il CERN. Il più grande laboratorio di fisica delle particelle del mondo, nei primi anni cinquanta del secolo scorso, è nato proprio così, un atto di fiducia alla volta: fiducia che i paesi europei, ancora dilaniati dal recente conflitto mondiale, trovassero nelle immutabili leggi dell’universo un punto di incontro; fiducia che dei cospicui investimenti nella fisica fondamentale potessero contribuire alla rinascita economica e sociale dell'Europa; fiducia che, impegnati nella scomposizione della materia nei suoi elementi più piccoli, le particelle, si arrivasse alla ricomposizione della comunità scientifica europea, in larga parte ancora oltreoceano.
La convenzione per la nascita dell'Organizzazione europea per la ricerca nucleare, il CERN, entrata in vigore il 29 settembre del 1954, si pone come obiettivo quello di costruire una scienza condivisa, in cui “i risultati del lavoro sperimentale e teorico siano pubblicati o altrimenti resi generalmente disponibili”. Questo obiettivo, inizialmente abbracciato da 12 Stati fondatori, tra cui l’Italia, accomuna oggi 24 Stati membri e una vivace comunità di 17.000 persone, di oltre 110 nazionalità. Quella italiana, ampiamente rappresentata negli esperimenti attivi, accompagna l’Organizzazione sin dai suoi primi atti, e dobbiamo alla caparbietà di uno dei ragazzi di via Panisperna, Edoardo Amaldi, non solo la nostra pronta adesione al progetto, ma addirittura un ruolo chiave nella sua ideazione.
Amaldi si era infatti fatto carico, in Italia, del ripristino del prestigio della scuola di fisica italiana: rifiutò una cattedra negli Stati Uniti, si prodigò nella ricerca di fondi privati, promosse la realizzazione di un laboratorio per raggi cosmici sul Cervino, il “Testa Grigia”, e fu tra i fondatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), nato nel 1951, ma si rese conto che una svolta per la fisica delle alte energie in Italia e in Europa sarebbe arrivata soltanto con delle grandi infrastrutture condivise, un grande laboratorio europeo. Nel 1952 viene nominato Segretario generale dell’Organizzazione provvisoria del CERN e assolve al compito cruciale di vincere le opposizioni scientifiche e politiche che ancora si frapponevano alla ratifica del progetto.
Dalla ratifica all’entrata in funzione del primo acceleratore, il sincrociclotrone (SC), passano solo quattro anni e la prima scoperta avviene nel 1958, a un mese dall’avvio dell’esperimento: è il decadimento del pione. Previsto ma mai osservato prima di allora, il decadimento del pione contribuì alla comprensione delle forze fondamentali e fece riecheggiare nel mondo il nome del CERN e di Giuseppe Fidecaro, parte del piccolo gruppo di ricerca.
Giuseppe e la moglie Maria, fisica anche lei impegnata negli esperimenti pionieristici di SC, furono tra i primi fisici italiani ad arrivare al CERN. I due divennero, negli anni, i pilastri della vita del laboratorio e continuarono, persino dopo aver raggiunto la pensione, a stimolarne le attività avec une patience souriante, “con una pazienza sorridente” per citare il fisico Ugo Amaldi, figlio di Edoardo, dispensando spiegazioni, aneddoti, consigli. In altre parole, alimentarono quello che Carlo Rubbia, direttore del CERN dal 1989 al 1993, ha definito il “sum plus” del CERN, quel clima prospero in cui la combinazione di intelligenze e talenti ha prodotto risultati ben più rilevanti di quanti non ne avrebbe prodotti la somma dei singoli contributi.
In un’intervista confluita nella raccolta Infinitamente CERN, Rubbia descrive infatti l’impresa che gli valse il Nobel come “la punta dell’iceberg di un'avventura meravigliosa, a cui contribuirono in moltissimi” e che incominciò almeno vent'anni prima. Risale agli anni sessanta la teorizzazione della forza elettrodebole e delle sue particelle mediatrici; ai primi anni settanta, con la gigantesca camera a bolle del CERN, Gargamelle, la prova di questa forza unificata; al 1976 l’intuizione che la conversione del Super Proton Synchrotron (SPS), all’epoca il più grande acceleratore del CERN, in un collisore protone-antiprotone, avrebbe prodotto collisioni di energia sufficientemente elevata da riuscire a produrre le elusive particelle mediatrici dell’interazione elettrodebole, ancora mancanti all’appello. Così si è arrivati alla loro scoperta: nel 1983 i rivelatori UA1 e UA2 annunciano l’osservazione dei bosoni W e Z. Alla guida di UA1 c’è proprio l’italiano Carlo Rubbia.
Per Rubbia si apre un periodo denso di successi e festeggiamenti: la scoperta nel 1983, il conseguente Nobel nel 1984, l’inaugurazione, da neoeletto direttore del CERN, del più grande collisore di particelle mai realizzato, il Large Electron-Positron Collider (LEP), nel 1989. Con 27 chilometri di circonferenza, a un centinaio di metri di profondità sotto la pianura di Gex, a cavallo tra Svizzera e Francia, il LEP fu un’opera di ingegneria civile senza precedenti e, nei suoi 11 anni di attività, consentì di misurare con precisione le proprietà dei bosoni W e Z e di verificare il modello standard, la teoria che descrive le particelle elementari e le loro interazioni. Al momento di dismetterlo per fare posto a un collisore più potente, il Large Hadron Collider (LHC), LEP registrò un segnale, in cui molti scorsero la traccia di una particella particolarissima, che continuava a sfuggire: il bosone di Higgs.
Il progetto LHC era stato approvato anni prima e doveva occupare lo stesso tunnel di LEP, non c’era possibilità che i due collisori coesistessero. Ma il segnale poneva tutto in discussione. Si produsse una frattura tra ciò che parte della comunità chiedeva, ovvero ritardare l’installazione di LHC, e i costi in termini economici, temporali e persino di credibilità che tale scelta avrebbe comportato. La decisione finale fu presa da Luciano Maiani, eletto direttore del CERN nel 1999, che ricorda i silenzi pesanti, le pressioni, le lacrime dei ricercatori che costellarono quei mesi, e una poesia di Robert Frost, appresa dal collega Giuseppe Cocconi, che si chiudeva così: “Due strade divergevano in un bosco, e io – io ho preso quella meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza”.
Maiani prese la strada meno battuta, con la consapevolezza che LEP non disponeva di energia e luminosità sufficienti per scoprire il bosone di Higgs. E nonostante qualcuno continuasse a opporsi alla sua decisione e a “dimenticare” collegati i cavi di alimentazione di LEP, con determinazione Maiani proseguì per la sua strada. LEP fu dismesso nel 2001 e LHC entrò in funzione nel 2008; quattro anni dopo Fabiola Gianotti, che diventerà direttrice del CERN nel 2016, e Joseph Incandela, allora responsabili degli esperimenti ATLAS e CMS, annunciarono la scoperta del bosone di Higgs. Peter Higgs, che aveva teorizzato l’esistenza della particella nel 1964, vinse il Nobel l’anno successivo, e la comunità dell’INFN, l’istituto che da sempre coordina il contributo italiano alle attività di ricerca del CERN, festeggiò il traguardo da protagonista.
La straordinaria esplorazione del CERN apriva un’altra finestra sul mondo subatomico, mentre qualcuno già si interrogava su come affacciarvisi meglio. Nuovi rivelatori, nuovi magneti e un maggiore numero di collisioni: i lavori di potenziamento di LHC, High Luminosity LHC, avviati nel 2011, e in fase di realizzazione con un importante contributo tecnico e scientifico italiano, sono previsti concludersi nel 2029. Ma l’Italia al CERN sta già guardando a un futuro ancora più lontano. Perché abbiamo ancora molti misteri sulla natura dell'universo da indagare, e il settantesimo compleanno del CERN è soltanto l’occasione per stringerci tutti intorno alla torta, soffiare sulle candeline e rinnovare la nostra fiducia in un futuro insieme, luminosissimo.
[Questo contributo, a firma di Antonio Zoccoli, presidente dell’INFN, è stato pubblicato su lescienze.it, il 1° ottobre 2024, in occasione delle celebrazioni per i settant’anni del CERN]