Intervista a Giorgio Chiarelli, ricercatore INFN e co-portavoce della collaborazione CDF, e a Giorgio Bellettini, professore emerito all’Università di Pisa, tra i promotori del progetto CDF e primo portavoce non-statunitense.
Una delle testimonianze più ricche, lunghe e costanti del contributo italiano alla storia della fisica delle particelle è sicuramente rappresentata dal caso del bosone W, uno dei due bosoni mediatori della forza elettrodebole. Dalla formulazione delle prime ipotesi teoriche sulla sua esistenza alla sua prima osservazione sperimentale, la storia del bosone W parla, infatti, italiano. Essa affonda le sue radici nel lavoro svolto da Enrico Fermi e dai Ragazzi di via Panisperna negli anni ‘30 del secolo scorso, e trova coronamento nel 1984 con il contributo di Carlo Rubbia, che proprio per la scoperta di questa particella è stato insignito del premio Nobel per la fisica. Una storia che continua ancora oggi a tingersi dei colori del nostro paese, come dimostra la pubblicazione su Science, lo scorso 8 aprile, dell’ultimo atteso articolo firmato dalla collaborazione internazionale dell’esperimento Collider Detector at Fermilab (CDF), a cui l’Italia partecipa con l’INFN. L’articolo, che ha conquistato anche la copertina della prestigiosa rivista scientifica, riporta i risultati sulla misura più accurata di sempre del valore della massa del bosone W, effettuata analizzando l’intero set di dati acquisiti da CDF dal 2001 al 2011. Oltre a rappresentare l’ultimo successo della fisica italiana nello studio della forza elettrodebole, il risultato, in tensione con le previsioni teoriche, potrebbe anche indicare l’esistenza di fenomeni fisici ancora sconosciuti, che aprirebbero la strada a una fisica oltre il Modello Standard.
CDF, che nel corso della sua più che trentennale carriera è stato protagonista anche di un altro fondamentale risultato, la scoperta nel 1995 del quark top, ha visto e continua a vedere il fondamentale contributo dell’INFN, tra i soci fondatori della collaborazione e responsabile del finanziamento e della realizzazione di una buona parte dei componenti del rivelatore. A testimoniare il ruolo rilevante svolto dall’INFN, anche i quattro ricercatori non statunitensi che si sono alternati alla guida dell’esperimento, tutti provenienti dalle file dell’Istituto. Tra questi, Giorgio Chiarelli, ricercatore della sezione di Pisa e oggi co-portavoce della collaborazione CDF, e Giorgio Bellettini, tra i promotori del progetto CDF alla fine degli anni ’70, e primo portavoce non statunitense.
Giorgio Chiarelli, qual è stato il percorso che ha portato a questo ultimo risultato di CDF?
La misura si basa su un’analisi degli eventi (scontri protone-antiprotone) raccolti durante il run 2 del Tevatron dal 2001 al 2011. L’analisi dei dati ha richiesto moltissimo tempo, impegno e cura da parte dei ricercatori della collaborazione per vari motivi. Il primo è legato al fatto che questo risultato rappresenta la parola finale dell’esperimento sulla massa del bosone W, uno dei parametri fondamentali del modello standard. Il secondo riguarda la sempre maggiore comprensione, acquisita negli anni, sul funzionamento del nostro rivelatore: questo ci ha permesso di correggere tanti effetti strumentali, e ridurre progressivamente varie incertezze associate alla misura della massa del W. Per dare un’idea, rispetto al 2012, quando fu pubblicato un primo risultato relativo all’analisi di circa un quarto dei dati raccolti dall’esperimento, abbiamo migliorato di un fattore due la precisione della misura. Un risultato che è frutto, oltre che al lavoro di analisi, anche degli input provenienti dall’ambito della fisica teorica. Quindi una precisione che è frutto della quantità di dati a disposizione (quasi quattro milioni di candidati W), ma anche di tanto lavoro e ingegnosità dei ricercatori.
Perché è così importante migliorare la precisione del valore della massa del bosone W?
Questa misura è di grande importanza all’interno della fisica delle particelle perché il valore della massa del W è legato alla massa di altre due particelle fondamentali del Modello Standard, il bosone di Higgs, di cui quest’anno a luglio ricorreranno i dieci anni dalla scoperta al CERN, e il quark top, individuato proprio da CDF e dal suo esperimento omologo al Fermilab D0 nel 1995. Queste quantità, insieme ad altre, possono essere utilizzate per calcolare delle relazioni previste dalla teoria del Modello Standard. Essendo le masse del bosone di Higgs e del quark top note, è infatti possibile verificare e controllare se c’è un disaccordo tra le previsioni teoriche e le misure sperimentali riguardanti il bosone W, come appunto messo in evidenza da CDF con questo ultimo risultato. Se pensiamo che questo sia lontano dal mondo che ci circonda, è una distanza solo apparente: si tratta dei costituenti fondamentali della materia che conosciamo e delle forze che tra loro agiscono. Le interazioni deboli, di cui il bosone W è uno dei mediatori, sono responsabili dei processi che avvengono nel nostro Sole.
Quali sono stati i metodi utilizzati per evitare errori nell’analisi dei dati?
Per essere certi che gli strumenti di analisi impiegati per effettuare la misura non fossero soggetti a errori dovuti a bias capaci di far tendere i risultati verso valori anche inconsciamente preferiti o auspicati, è stato impiegato un metodo che prevede di chiudere in una sorta di scatola nera i risultati finali, attraverso uno spostamento (ignoto a tutti) dal valore centrale della massa del W. Quando, oltre un anno fa, abbiamo aperto la nostra scatola siamo rimasti sorpresi. Sapevamo che la misura sarebbe stata molto precisa e avevamo confidenza nel risultato, ma una volta appurata la tensione con il Modello Standard siamo ritornati sui nostri passi per capire se ci fossero stati errori, che non sono tuttavia stati riscontrati. Assicurarci dell’integrità del processo di analisi è stata una delle principali attività che mi ha visto impegnato insieme all’altro portavoce della collaborazione, David Toback. Un ulteriore livello di controllo dei risultati è stato inoltre garantito dalle verifiche effettuate da revisori scelti all’interno della collaborazione. Ora il nostro risultato è a disposizione della comunità scientifica.
Che tipo di ricadute avrà il risultato ottenuto?
La misura indica la necessità, per i fisici teorici e sperimentali, di tornare sul banco di lavoro al fine di verificare ulteriormente le analisi dei dati finora utilizzati e di comprendere se c’è bisogno di migliorare ed estendere la teoria corrente. La prima, ed ovvia, implicazione, è di ripetere nel prossimo futuro la misura. Come ricordato, CDF ha infatti terminato la sua attività oltre dieci anni fa, ma ci sono altri esperimenti più recenti, come quelli ospitati al Large Hadron Collider del CERN, o futuri, che potranno confermare o meno il nostro risultato, e verificare (o meno) la presenza di nuova fisica. Inoltre, e qui la parola va ai colleghi teorici, il nostro risultato potrebbe suggerire estensioni del modello Standard verificabili (o falsificabili) anche in altri processi fisici misurabili. Noi pensiamo che la nostra misura indichi una tensione con l’attuale descrizione del Modello Standard, ma la scienza cresce solo nel dubbio e nell’incertezza, che costituiscono sempre il faro del nostro lavoro, sottoposto a una costante revisione critica.
In che modo l’INFN ha contribuito a questo ultimo successo di CDF?
L’INFN non ha mai fatto mancare, nella veste di socio fondatore della collaborazione, il suo supporto all’esperimento. L’Italia, attraverso l’INFN, ha fornito un decisivo contributo nelle fasi progettuali, di sviluppo e di miglioramento dell’apparato, nell’arco della trentennale storia di CDF, a cui ha hanno partecipato diverse generazioni di fisici italiani e moltissimi studenti, che hanno svolto la loro tesi di dottorato e le loro prime esperienze all’interno della collaborazione. Relativamente a questa ultima misura, l’INFN non solo ha contribuito grazie al lavoro di analisi dati condotto dai propri ricercatori, ma ha anche svolto un ruolo di supporto grazie al CNAF di Bologna, dove era conservata una copia del software di analisi di CDF.
Giorgio Bellettini, ci può raccontare quando e come è nata la collaborazione CDF?
L’INFN è stato uno dei soci fondatori di CDF, la cui nascita risale all’autunno del ’79. In quell’anno, nel corso di una conferenza internazionale al Fermilab, la Lepton-Photon Conference, alcuni fisici del Fermilab presentarono una nuova iniziativa, che consisteva nel trasformare l’anello principale dell’acceleratore Tevatron in un collisore di protoni e antiprotoni. La proposta era considerata molto coraggiosa perché all’epoca la scena dei collisori adronici era dominata dal CERN, che già lavorava da anni sulle collisioni tra fasci opposti all’interno Super Proton Synchrotron (SPS). Alla fine, decidemmo comunque che avremmo collaborato con un gruppo italiano al progetto e alla realizzazione di un nuovo rivelatore da installare sul nascente collisore statunitense. Pochi mesi più tardi mi ritrovai quindi nuovamente al Fermilab con i responsabili del laboratorio e del Department of Energy, per proporre e confermare la nostra adesione. Nonostante qualche perplessità iniziale, il progetto fu infine approvato all’inizio del 1980, anno a cui risale anche la nascita ai Laboratori Nazionali di Frascati, dove lavoravo, e a Pisa dei due importanti gruppi che avrebbero lavorato alla realizzazione di CDF, il quale può essere considerato a tutti gli effetti un’attività italo-americana-giapponese, come dimostrano le bandiere dei tre paesi posizionate a partire dal 1985 sopra la testa del rivelatore.
Quali sono stati i principali successi raggiunti da CDF prima della cessazione della sua attività nel 2011?
CDF è stato in generale, e soprattutto per l’Italia, un esperimento di grande successo. Il risultato di maggiore rilievo è stato senza dubbio la scoperta, nel 1995, del quark top, la cui massa fu misurata con estrema precisione in varie maniere, scegliendo canali di decadimento differenti. L’esperimento è stato tuttavia responsabile anche della misura di molti fenomeni d’interesse per l’epoca, come la produzione di barioni strani, contenenti il quark beauty, e le oscillazioni dei loro prodotti di decadimento. La nuova misura della massa del W è frutto del più recente periodo di attività della Collaborazione, che ha consentito, grazie all’utilizzo dell’intero set di dati acquisito e al raffinamento delle correzioni sistematiche, di ottenere il risultato pubblicato nei giorni scorsi su Science, caratterizzato da un errore molto ridotto e da una eccezionale accuratezza. Risultato che ha fissato un valore della massa del W che si discosta significativamente dalla previsione del Modello Standard, suggerendo la possibile presenza di fenomeni non ancora compresi.
Che tipo di tecnologie hanno consentito a CDF di mantenere performance così elevate nel corso della sua trentennale storia?
CDF è stato un gioiello di alta tecnologia: per l’estrema precisione del suo tracciatore di vertice e del tracciatore centrale, la componente che rivelava le particelle secondarie cariche e ne misurava l’impulso su gran parte dell’angolo solido, e per l’elevata risoluzione spaziale e in energia del suo calorimetro a celle proiettive, che misurava la distribuzione angolare del flusso di energia trasportato dalle particelle secondarie. La camera centrale tracciante dell’esperimento, per esempio, ci ha permesso di distinguere nel dettaglio la sovrapposizione di tracce dei diversi getti che contraddistingue gli stati finali di produzione del bosone W, consentendo di studiarli. Un celebre ulteriore miglioramento, il Silicon Vertex Detector, impiegava elettrodi conduttori stampati su piastrine di silicio, era inoltre in grado di misurare con la precisione di una frazione di millimetro il punto di origine degli eventi e la loro struttura attorno ad esso. La combinazione di questi fattori ha permesso di separare in modo pulito gli eventi di produzione del W e di misurarne accuratamente la massa. Tutti questi aspetti hanno quindi contribuito all’acquisizione di dati di qualità e alla eccezionale riduzione degli errori sistematici di questa misura.
In che modo l’INFN ha contribuito alla nascita e ai successi di CDF e come si è cambiata la sua partecipazione nel tempo?
CDF è stato un esperimento in buona parte italiano, a cui l’INFN ha contribuito sotto tutti gli aspetti. I fisici dell’INFN hanno infatti ricoperto ruoli di leadership sia nel lavoro di progettazione di CDF, sia nella fase di realizzazione di molte delle componenti del rivelatore: gli spettrometri a piccoli angoli - che operavano con una risoluzione più bassa, ma che hanno consentito di misurare la sezione d’urto totale e di scattering elastico delle particelle; il tracciatore al silicio, l’elettronica di trigger - che segnalava la presenza di vertici secondari alla produzione; il gigantesco calorimetro adronico a torri protettive e i rivelatori di muoni. A tal proposito, ricordo che nel 1982, in occasione del trasferimento dell’hardware dell’esperimento dall’Italia agli Stati Uniti, tutte le componenti da noi realizzate riempirono ben cinque container navali. Abbiamo inoltre collaborato allo sviluppo della camera centrale di CDF e anche all’intera elettronica di trigger dell’esperimento. Mi preme infine sottolineare il ruolo dell’INFN nella concezione e realizzazione del Silicon Vertex Detector. Questo strumento impiegò una tecnologia assolutamente innovativa e che rimane uno dei principali contributi italiani a CDF. Facendo ben fruttare il contributo dato alla costruzione del rivelatore, i fisici dell’INFN hanno lavorato su molti dei principali progetti di analisi dati dell’esperimento. Oltre ai gruppi di Frascati e Pisa, a questo sforzo hanno contribuito anche i gruppi INFN delle Sezioni di Padova e Bologna, che si unirono alla collaborazione rispettivamente nel 1990 e nel 1992, e successivamente di Roma e Trieste.