Intervista a Marifelicia De Laurentis, professoressa all’Università Federico II di Napoli, ricercatrice della sezione INFN di Napoli e Ciriaco Goddi, professore all’Università di Cagliari e ricercatore della sezione INFN di Cagliari e dell’INAF.
Al di là del suo indiscutibile valore scientifico, la prima e suggestiva immagine di Sgr A*, il buco nero supermassiccio nel cuore della nostra galassia, presentata lo scorso 12 maggio dalla collaborazione internazionale Event Horizon Telescope (EHT) nel corso di tre conferenze stampa simultanee svoltesi in Europa, Asia e Stati Uniti, costituisce un emblematico caso di successo tecnologico. Se da un lato la possibilità di osservare il vorticoso comportamento della materia intorno all’orizzonte degli eventi di un buco nero ha infatti consentito di mettere alla prova le previsioni della relatività generale di Einstein in un cosiddetto regime di campo gravitazionale forte, dall’altro, l’accesso a tale informazione ha richiesto l’adozione di tecniche e sistemi di acquisizione e integrazione dei dati in grado di superare le difficoltà sperimentali legate alla distanza che separa SgrA* dal nostro pianeta, pari a circa 27.000 anni luce, e alla natura estremamente variabile di questo buco nero. Ostacoli superati grazie alla creazione di un telescopio virtuale delle dimensioni della Terra, attraverso l’utilizzo della rete di otto osservatori radio-astronomici, distribuiti su tutto il globo, di cui si compone EHT. Una soluzione già dimostratasi vincente con la produzione e rivelazione della prima “foto” di un buco nero, M87, avvenuta nel 2019.
La connotazione tecnologica che contraddistingue l’immagine di SgrA* esalta l’importanza scientifica del risultato, che ha fornito una nuova e decisiva prova dell’esistenza di un corpo nero compatto al centro della Via Lattea, fornendo un nuovo banco di prova per la Relatività Generale e per lo studio del comportamento dello spaziotempo in contesti altrimenti insondabili, come dimostrato anche dalla pubblicazione, in concomitanza con l’annuncio del 12 maggio, dei sei articoli firmati dagli dagli scienziati della collaborazione EHT, tra cui Marifelicia De Laurentis, professoressa all’Università Federico II di Napoli, ricercatrice della sezione INFN di Napoli e coordinatrice di uno dei lavori pubblicati su The Astrophysical Journal Letters, e Ciriaco Goddi, professore all’Università di Cagliari e ricercatore della sezione INFN di Cagliari e dell’INAF.
MARIAFELICIA DE LAURENTIS
L’obiettivo principale della collaborazione EHT è sempre stato quello acquisire un’immagine di SgrA*. Quando matura l’ipotesi relativa alla presenza di un corpo celeste compatto al centro della nostra galassia e che tipo di prove a favore esistevano, prima del risultato ottenuto da EHT, della sua esistenza?
La posizione approssimativa di Sagittarius A* nel centro della Via Lattea è nota da quasi un secolo. È stata appresa per la prima volta monitorando le posizioni e le velocità degli ammassi globulari, i quali tendevano a orbitare attorno a un punto comune. I telescopi del passato non erano tuttavia in grado di individuare nessun oggetto interessante, a causa della presenza nelle regioni centrali della nostra galassia di polvere, tanto densa da riuscire a estinguere quasi tutte le forme di luce provenienti dal centro galattico. Un ostacolo che solo i segnali emessi nelle onde radio possono superare. Solo nel 1933, con l’ideazione dei radiotelescopi grazie al lavoro pioneristico di Karl Jansky, fu perciò possibile identificare una sorgente di emissione radio sorprendentemente luminosa proveniente dalla direzione della costellazione del Sagittario, subito associata al centro galattico. Sarà invece l'avvento dell'interferometria radio, a partire dagli anni ’70, a consentire di ottenere maggiori informazioni su Sagittarius A. Avendo osservazioni più chiare e dettagliate, si poté infatti iniziare a fare stime sulle dimensioni e sulla massa dell’oggetto responsabile dell’emissione di un così elevato flusso [non so se sia il termine corretto] di onde radio, scoprendo che era sia più piccolo del nostro sistema solare, sia milioni di volte più massiccio del Sole. Caratteristiche compatibili esclusivamente con un buco nero supermassiccio. I successivi progressi tecnologici ci hanno poi permesso di ottenere osservazioni di altissima precisione, tracciando singole stelle mentre orbitavano attorno al Sagittario A* a una velocità fino a pochi punti percentuali della luce [non capisco, direi ‘a velocità poco inferiori a quella della luce’, immagino che si intenda questo]. Queste osservazioni sono state cruciali, poiché le stelle orbitano velocemente attorno al buco nero supermassiccio. Osservandole attentamente nel corso degli anni e persino dei decenni, è stato possibile dedurre le proprietà della gravità in questo ambiente estremo, fornendo un test strumentale alla teoria della relatività generale di Einstein. Queste stelle veloci servono anche a dimostrare chiaramente che il Sagittarius A* è davvero un buco nero, poiché altre disposizioni come un denso gruppo di stelle morte si tradurrebbe in orbite diverse.
Quali sono le caratteristiche principali dell’immagine e che tipo di informazioni è possibile ricavare a partire dalla a sua osservazione sulle proprietà di SagrA* e sulla regione di spazio a esso limitrofa?
L’immagine mostra esattamente cosa ci saremmo aspettati di vedere nei dintorni di un buco nero supermassiccio che, come tale, non emette luce propria. L’alone luminoso visibile nella foto è infatti prodotto dall’insieme di gas e polveri che circondano Sgr A*. Al centro dell’anello c'è una regione oscura chiamata ombra, che contiene l'orizzonte degli eventi del buco nero, la superficie oltre la quale nulla, nemmeno la luce, può sfuggire alla presa del buco nero. Il materiale esterno, muovendosi rapidamente e comprimendosi nel suo cammino verso l'orizzonte degli eventi, può raggiungere temperature fino a 10 milioni di gradi Celsius. A queste temperature, il materiale, che forma rapidamente un sottile disco di accrescimento che ruota rapidamente, emette intense quantità di radiazioni attraverso l'intero spettro elettromagnetico. La maggior parte di quella radiazione viene assorbita dal gas e dalla polvere all'interno del nucleo galattico, con solo i raggi X e le emissioni radio che si fanno strada attraverso la galassia fino al nostro pianeta.
Perché siamo certi che quello osservato dalla collaborazione EHT sia effettivamente un buco nero?
A renderci confidenti sulla natura dell’oggetto osservato sono proprio le equazioni della Relatività Generale, le cui previsioni trovano riscontro nell’immagine di Sgr A*. Tra le soluzioni della teoria di Einstein, troviamo infatti quelle che descrivono fenomeni gravitazionali limite, chiamati singolarità, in cui la curvatura della trama dello spaziotempo prodotta da un corpo di massa estremamente compatta è tale da non consentire neanche alla luce di sfuggire. Il primo contributo in questa direzione fu fornito nel 1916 da Karl Schwarzschild, la cui soluzione, nonostante fosse inizialmente ritenuta come un mero risultato matematico, senza una effettiva controparte astrofisica, era in grado di fornire indicazioni sulla dimensione dell’orizzonte degli eventi di un oggetto a simmetria sferica e statica. Sarà Roy Kerr, nel 1973, attraverso l’elaborazione di una adeguata metrica, a estendere la validità del risultato di Schwarzschild a contesti reali, riguardanti buchi neri rotanti. È grazie a simili soluzioni che, a partire dalla massa, è stato possibile stabilire una stima per il raggio dell’orizzonte del buco nero di Sgr A*. Previsione confermata dalle osservazioni di EHT, che costituiscono quindi l’ennesima conferma della Relatività Generale, anche in un regime di campo gravitazionale forte come quello che domina il centro galattico.
Quali sono le similitudini e le differenze tra SgrA* e M87?
I risultati di queste nuove misurazioni di Sgr A* forniscono un’ulteriore evidenza del fatto che i buchi neri astrofisici, indipendentemente dalla loro massa e dalle loro differenze, sono descritti da soluzioni della teoria di Einstein. M87* vanta una massa di 6 miliardi di soli ed è di dimensioni gigantesche. Il nostro intero sistema solare si adatterebbe all'interno del suo orizzonte degli eventi. Al contrario, Sgr A*, che si trova a soli 27.000 anni luce dalla Terra, è di dimensioni relativamente esigue. Con ‘sole’ 4 milioni di masse solari, è abbastanza piccolo da adattarsi all'orbita di Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Se i due buchi neri fossero allineati per un servizio fotografico, M87* riempirebbe il fotogramma, mentre Sgr A* scomparirebbe del tutto. Inoltre, mentre M87* divora voracemente la materia circostante, forse intere stelle, e lancia un getto di particelle energetiche che illumina la sua galassia, l'appetito di Sgr A*, al confronto, è minimo. Nonostante ciò, i due corpi, a causa della distanza che li separa dalla Terra, appaiono più o meno della stessa dimensione nel cielo, così come previsto dalla teoria della gravità di Einstein, secondo la quale l'immagine di un buco nero varia solo al variare della sua massa: un buco nero 1.000 volte più piccolo di massa di un altro avrà un'immagine molto simile, solo 1.000 volte più piccola. Lo stesso non vale per altri oggetti. In definitiva, la dimensioni di questi corpi celesti non influisce sul loro aspetto, in quanto rispondono a una sola legge di natura: la gravità.
CIRIACO GODDI
Quali sono le maggiori difficoltà da affrontare nell’acquisizione ed elaborazione delle immagini di M87 e SgrA*?
Per realizzare l’immagine di SgrA* sono stati utilizzati dei radiotelescopi, strumenti che captano il segnale elettromagnetico nello spettro delle onde radio. La foto rappresenta quindi una mappa della luce emessa dal plasma incandescente che orbita intorno al buco nero poco prima di precipitare nell’orizzonte degli eventi. Una delle difficoltà principali nel catturare l’immagine di un buco nero riguarda la dimensione di questi oggetti, che sono molto piccoli, perché la loro caratteristica principale è quella di concentrare una quantità di massa enorme in un volume ridotto. Per fare un paragone, è come se l’intera massa del Sole fosse concentrata in un oggetto con un diametro di poco più di un chilometro. Se consideriamo invece i buchi neri più grandi che conosciamo, come SgrA* e M87, che sottendono angoli maggiori nel cielo [non capisco che cosa significa], le loro dimensioni corrispondono a quelle di una ciambella sulla Luna come vista dalla Terra. Non esiste perciò un telescopio ottico con un potere risolutivo così elevato da permetterci di distinguere tali oggetti. Servirebbe uno strumento con uno specchio di diversi chilometri, che non possiamo costruire con la tecnologia attuale. A parte tali difficoltà, per osservare i buchi neri preferiamo fare ricorso a onde radio piuttosto che a luce visibile, perché esse ci permettono di penetrare la coltre di nubi e gas che avvolge il nostro centro galattico oscurando totalmente nella luce visibile. Questo aspetto complica maggiormente la capacità di osservare i buchi neri poiché a parità di dimensioni, la risoluzione dei telescopi peggiora all’aumentare delle lunghezze d’onda dei segnali d’interesse. Nello specifico, per costruire un radio-osservatorio con le capacità necessarie ai nostri scopi, dovremmo costruire un’antenna di 10.000 chilometri di diametro, ovvero una parabola di dimensioni dell’ordine della circonferenza terrestre.
Che tipo di soluzione è stata adottata per superare questi limiti sperimentali e tecnologici?
Sebbene non sia possibile realizzare un telescopio delle dimensioni delle Terra, è tuttavia possibile simularlo e riprodurre le sue prestazioni. Questo è ciò che è stato fatto dalla collaborazione EHT, adottando una tecnica denominata Very Long Baseline Interferometry (Vlbi). Tale soluzione impiega una rete globale di radiotelescopi, posizionati in diversi continenti, che osservano all’unisono la stessa sorgente. I radiotelescopi lavorano in coppie, e ogni coppia riceve le onde radio dalla sorgente con un ritardo di un milionesimo di secondo l’una rispetto all’altra, una differenza misurata da precisissimi orologi atomici, che ci consente di sincronizzare le onde radio. Unitamente a questa precisione temporale, la distanza tra i siti di osservazione ci permette infine di ottenere informazioni spaziali sulla sorgente, su una scala spaziale tanto più piccola tanto più è grande la distanza tra i radio-telescopi. Per fare in modo che questa tecnica funzioni c’è quindi bisogno di un numero minimo di telescopi, che devono essere inposizionati in zone strategiche del globo, che deve essere coperto quanto più uniformemente possibile. I telescopi devono anche essere installati in siti con clima secco e ad alta quota, come il deserto di Atacama in Cile, perché il principale nemico dei radiotelescopi è il vapore acqueo, il quale tende a distruggere il segnale radio ad alte frequenze. Queste sono state le sfide fronteggiate da EHT, che oggi conta oggi una rete composta da 10 radiotelescopi.
In che modo avviene il processo di elaborazione dei dati acquisiti?
Ci sono molti dettagli tecnici che vanno n alla base dell’elaborazione dei dati da cui vengono prodotte le immagini e che attengono ai tre passaggi fondamentali in cui è suddiviso il lavoro della collaborazione EHT. Il primo passo riguarda la correlazione dei dati: i segnali captati dalle diverse antenne vengono digitalizzati e vengono inviati in due centri di correlazione, uno in Europa, presso il Max Planck Institute for Radio Astronomy di Bonn, e l’altro presso il Massachusetts Institute of Technology, dove due supercomputer combinano i dati. Ammontando a diversi petabyte, il volume totale dei dati acquisiti in ogni campagna osservativa viene registrato su diverse tonnellate di dischi rigidi. Una volta conclusa la correlazione, si passa alla calibrazione, di cui si occupa un gruppo di lavoro composto da scienziati sparsi in tutto il mondo, allo scopo di misurare, dopo averli ripuliti dagli effetti strumentali e atmosferici, i segnali astronomici presenti nei dati. Per garantire la coerenza e l’affidabilità di questo lavoro, soggetto alle scelte personali effettuate dagli scienziati, sono state adottate diverse strategie che prevedono sia la suddivisione del lavoro in squadre diverse che l’adozione di algoritmi differenti. L’ultimo passo è infine quello dedicato all’imaging, che consente la ricostruzione dell’immagine astronomica della sorgente attraverso l’utilizzo di software diversi. Anche in questo caso, al fine di evitare pregiudizi personali, il lavoro viene svolto da gruppi indipendenti. Questo processo ha richiesto cinque anni per l’elaborazione dell’immagine SgrA*, tre anni in più rispetto al tempo occorso per M87: questo è dovuto all’estrema variabilità del buco nero nel cuore della Via Lattea, un aspetto che complica molto l’analisi dei dati.
Quali saranno i prossimi obiettivi della collaborazione EHT?
I prossimi obiettivi della collaborazione EHT prevedono l’inclusione di un maggiore numero di telescopi per migliorare la qualità dell’immagine. Avere più osservatori, distribuiti in maniera uniforme in diverse parti del globo, ci consentirà infatti di osservare ancora più dettagli e strutture fini delle sorgenti. Questo non perché aumenterà la risoluzione delle immagini, vincolata alle dimensioni del diametro terrestre, ma perché una campionatura superiore permetterà di ricostruire foto con una fedeltà più alta. Stiamo quindi già lavorando a una nuova rete di telescopi di prossima generazione, che includerà molti altri siti sia nelle Americhe e in Europa, che in Africa, dove al momento non sono presenti radiotelescopi della rete di EHT. Ci stiamo inoltre concentrando su osservazioni in frequenze più alte, le quali permettono di raggiungere risoluzioni angolari migliori, anche usando gli stessi telescopi. In questo caso il vincolo invalicabile è però rappresentato dalla nostra atmosfera, che diventa un fattore ancora più limitante e variabile all’aumentare delle frequenze captate. Per tale ragione, la prossima frontiera della collaborazione EHT diventerà lo spazio, dove, oltre a risolvere il problema della distorsione atmosferica dei segnali, non avremmo ostacoli legati alla visibilità della sorgente, dovuti all’esposizione dei vari radiotelescopi terrestri, che hanno attualmente una finestra osservativa utile di solo qualche ora per notte a causa della rotazione del pianeta. Campagne osservative condotte tramite osservatori spaziali ci consentirebbero perciò di creare dei veri e propri filmati del plasma orbitante intorno a SgrA* e M87 e di catturare immagini di altri buchi neri al centro di altre galassie.