Intervista con Luigi Ambrosio, Direttore della Scuola Normale Superiore, coordinatore del Tavolo Tecnico istituito dal MUR per elaborare una strategia nazionale della ricerca fondamentale
È stato pubblicato il documento finale del Tavolo Tecnico istituito dal ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, allo scopo di formulare proposte per una strategia italiana in materia di ricerca fondamentale. Il lavoro svolto dal Tavolo Tecnico, coordinato da Luigi Ambrosio, direttore della Scuola Normale Superiore e composto da Ugo Amaldi del CERN, Ariela Benigni dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Paola Inverardi dell’Università dell’Aquila e del Gran Sasso Science Institute, Francesco Loreto dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Gianfranco Pacchioni dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, Angela Santoni della Sapienza Università di Roma, Luisa Torsi dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, fornisce un’attenta analisi dello stato della ricerca pubblica e delle proposte concrete per dare solidità al sistema. Partendo dallo studio di alcune criticità strutturali della ricerca italiana, il Tavolo Tecnico ha formulato alcune proposte organizzative e un’indicazione di un piano aggiuntivo, rispetto a quanto già previsto, di risorse pluriennali per la ricerca pubblica nazionale in modo da garantirne l’eccellenza e la competitività a livello internazionale. In particolare, viene proposto di stabilizzare la spesa pubblica per la ricerca al livello di almeno lo 0,7% del PIL: investimento che consentirebbe di non disperdere i prossimi investimenti dei progetti finanziati nell’ambito del PNRR Piano di Ripresa e Resilienza.
Qual è il contesto in cui nasce l’iniziativa del MUR di costituire un Tavolo Tecnico per una strategia nazionale della ricerca fondamentale?
Già nel 2021 vi fu un appello firmato da Accademici Lincei a favore della ricerca, all’interno del quale venivano proposti degli obiettivi piuttosto precisi da raggiungere, obiettivi di livello europeo nel rapporto tra l’investimento pubblico per la ricerca e il PIL del Paese. Gli appelli furono due, a due diversi Governi, il Governo Conte e il Governo Draghi. Nel frattempo, è arrivato il PNRR e il tema è necessariamente evoluto, per l’impatto del PNRR sulla ricerca. E sono emerse in particolare due criticità, che il Ministero ha subito colto e per le quali ha valutato la necessità di intervenire tempestivamente. Innanzitutto, nel PNRR c'è un certo sbilanciamento a favore della ricerca chiamiamola applicata. Anche se queste distinzioni, come riportato nel nostro documento, possono essere a volte soggettive, a volte persino variabili nel tempo, perché una ricerca che inizialmente nasce in ambito fondamentale può diventare applicata, anche nel giro di pochissimi anni, questo sbilanciamento oggettivamente c’è. La seconda criticità consiste nel fatto che il PNRR sta producendo un’ondata di finanziamenti, compressa nel tempo e su aree di intervento limitate. Se non si attuano interventi compensativi, determinerà inevitabilmente uno scalino molto pericoloso. Pensiamo al fatto che, per esempio, nell’ambito del PNRR non è possibile fare assunzioni a tempo indeterminato. Senza interventi, a conclusione del PNRR rischiamo, come mostrano i nostri grafici, di tornare quasi ai livelli del 2008 o 2009 nel rapporto tra spesa pubblica per la ricerca e PIL. Stiamo parlando di spesa pubblica, non di spesa per la ricerca in generale, che è una percentuale ben più alta del PIL perché include la componente industriale, e che era ovviamente fuori dall’obiettivo di un tavolo di carattere ministeriale come il nostro. Un’altra esigenza della ricerca su cui è necessario porre l’attenzione, e che è ben nota a chiunque lavori nel mondo dell’università o degli enti di ricerca, è che la programmazione deve essere pluriennale, persino oltre l’orizzonte dei documenti governativi. Perciò l’arco di tempo su cui noi abbiamo deciso di proiettarci è un arco quinquennale, in modo, peraltro, da includere anche il 2027, l’anno dello scalino.
Questa, in sintesi, è la genesi del progetto. Io probabilmente sono stato coinvolto perché in passato mi ero interessato a questi temi, mentre gli altri componenti sono accademici e ricercatori, e anche uno dei firmatari degli appelli originali, Ugo Amaldi. Inoltre, abbiamo potuto contare sul contributo, pur non facendo parte del tavolo, del Premio Nobel Giorgio Parisi, e di Francesco Giavazzi, consigliere economico della Presidenza del Consiglio, oltre che di altre professionalità.
Il nostro lavoro è durato circa tre mesi, ma il Tavolo in realtà ha un mandato di tre anni, perciò potrebbe in futuro anche essere investito di ulteriori incarichi. Tuttavia, abbiamo ritenuto di dover fornire un primo output dopo tre mesi, anche in vista della scadenza del DEF, il documento di programmazione economico finanziaria.
Per concludere la ricostruzione della storia, aggiungo che successivamente con Luciano Maiani, Ugo Amaldi e Angela Santoni abbiamo firmato un documento linceo, apparso i primi di settembre, che in un certo senso è figlio in parte del lavoro di questo Tavolo, e in parte anche delle proposte nate a monte nel 2021. Si tratta di un documento più analitico nell’articolazione delle proposte di finanziamento, ma che non contiene la parte di discussione delle criticità di sistema.
Quali obiettivi vi siete proposti nel Tavolo Tecnico?
Innanzitutto, cercare di mitigare lo scalino con una proposta di finanziamenti aggiuntivi: in sostanza si tratterebbe di dieci miliardi in cinque anni, di cui tre miliardi nei primi tre anni, perché questo finanziamento dovrebbe essere, appunto, aggiuntivo e anche progressivamente crescente per compensare il calo di investimento del PNRR. Consideriamo ad esempio che nell’ambito del PNRR non si possono fare assunzioni a tempo indeterminato: al termine del PNRR una parte di questi investimenti sul capitale umano dovrebbe comunque essere valorizzata.
Inoltre, una delle maggiori criticità è sicuramente la variabilità dei bandi. Per esempio, l’uscita dei bandi di finanziamento dei progetti di ricerca è sostanzialmente aleatoria. Ma non è solo la tempistica di pubblicazione, lo è anche il momento nel quale possiamo dire di conoscere, nel bene o nel male, l’esito finale. Mentre, se guardiamo a qualsiasi altra realtà, anche vicinissima a noi come la Francia, o la Svizzera, o ad altre realtà avanzate seppur piccole come Israele, tutte sono dotate di un’agenzia per la ricerca cui è affidata la gestione manageriale dei bandi, e si conosce perfettamente tutta la tempistica dei bandi, che viene rigorosamente rispettata. Questo, naturalmente, rappresenta un elemento di grande certezza che consente programmazione. Inoltre, vi sono oscillazioni non solo nei tempi ma nell’ammontare dei finanziamenti. Nel nostro documento abbiamo riportato una tabella molto illuminante sui PRIN, che mostra proprio tutte queste oscillazioni. Per giunta, c’è anche il continuo oscillare delle regole da un bando all’altro, che impedisce una procedura consolidata di valutazione, e la possibilità di instaurare comportamenti più o meno standardizzati. Per esempio, nei bandi PRIN un anno si privilegiano i grandi raggruppamenti, mentre l’anno successivo il contrario. Nelle discussioni all'interno del Tavolo Tecnico, cui hanno preso parte colleghi di diverse aree disciplinari, è emerso che le esigenze sono diverse: sarebbe utile, al fine di stilare bandi che tengano conto delle necessità delle singole realtà, un'interrogazione presso le diverse comunità scientifiche in modo da modulare le regole sulle loro specifiche strutture. Imporre le stesse regole a tutti non ha molto senso.
Una delle proposte che, come Tavolo Tecnico, auspichiamo possa essere ripresa in uno spirito bipartisan è quella di un’agenzia per la ricerca, su cui però bisogna chiaramente intendersi. In passato sono stati fatti alcuni tentativi caduti nel vuoto, probabilmente perché all’Agenzia si voleva attribuire un eccessivo potere discrezionale nell’allocazione dei fondi. Questo potrebbe restare al Ministero competente. Noi intendiamo invece un’agenzia di carattere tecnico, non di indirizzo politico rispetto alla ricerca, che si occupi degli aspetti gestionali dei bandi.
Perché è importante che un Paese avanzato si doti di una strategia della ricerca, in particolare della ricerca fondamentale?
Per rispondere non abbiamo necessità di andare a guardare lontano nel tempo, basta guardare la storia recente, addirittura la cronaca. Pensiamo all’emergenza Covid, nella quale abbiamo potuto disporre dello sviluppo praticamente in tempo reale di nuove scoperte sui vaccini. Non avremmo potuto affrontare questa emergenza come abbiamo fatto senza la scienza, che è stata in grado di gestirla a vari livelli, combinando conoscenze mediche, epidemiologiche, perfino matematiche, per esempio con modelli molto efficaci di propagazione delle pandemie. Questo è solo un esempio, se ne potrebbero fare tantissimi altri: pensiamo al calcolo scientifico, con applicazioni nate spesso da ricerche di tipo fondamentale. È necessario garantire due linee di finanziamento distinte che devono essere portate avanti entrambe, senza la tutela dell’una, si limitano le prospettive dell’altra.
Inoltre, avere una strategia della ricerca ci consente chiaramente anche di posizionarci bene nello scacchiere internazionale, della ricerca, dell’economia, della società e anche del capitale umano. Se ci mettiamo nella prospettiva di uno studente, uno dei nostri figli, che ha appena finito gli studi e che si chiede “va bene, ora devo avviare la mia carriera post-universitaria, quali sono le prospettive?”, beh, non gli si può proporre una prospettiva di un anno e poi si vedrà. Se guardiamo al funzionamento degli altri sistemi avanzati, faccio nuovamente l’esempio della Francia perché è quello più vicino a noi, sono tutti caratterizzati da una grande stabilità. Ripeto, in materia soprattutto di regole. I finanziamenti potranno anche variare un po’, nei termini delle condizioni macroeconomiche, ma le regole sono importanti. Una strategia pluriennale non solo ha perfettamente senso ma è necessaria. Nel nostro documento abbiamo portato avanti un lavoro analitico piuttosto impegnativo, con l’aiuto anche di economisti e di personale ISTAT, in cui abbiamo cercato di distinguere l'effetto del PNRR dall'effetto delle azioni meritorie che sono state già realizzate, in particolare con gli ultimi due Governi, che hanno avviato delle azioni pluriennali di finanziamento, sulle risorse umane e sui progetti di ricerca.
Come vi siete organizzati per produrre il documento nell’arco di tempo di tre mesi?
È stato un lavoro piuttosto impegnativo, anche perché le convenzioni statistiche non sono uniformi tra le varie banche dati: ISTAT e OECD, che sono state le nostre due principali fonti, adottano convenzioni non sempre coerenti tra loro. Tra l’altro, quando parliamo di spesa pubblica, un altro elemento da capire è che non solo il MUR vi concorre, è stato quindi necessario discriminare il contributo dei diversi Ministeri. Su questo, c'è stato un grande aiuto di Giulio Perani dell’ISTAT e di un mio collega economista della Scuola Normale a Firenze, Mario Pianta, Presidente dell’Istituto Ciampi. Abbiamo avuto solo una riunione in presenza, presso il MUR, la riunione di insediamento del Tavolo. Dopodiché abbiamo lavorato telematicamente. Abbiamo tenuto una decina di incontri, durante i quali abbiamo sviluppato analisi sulle criticità e considerazioni per elaborare delle proposte. La proposta finale, articolata in tre macroaree, personale, bandi e infrastrutture, è stata formulata anche confrontandoci con il Ministro, nel corretto equilibrio che vi deve essere tra il documento di un Tavolo Tecnico e i margini che deve avere il decisore.
Qual è l’esito delle tre macroaree?
Sul personale, come già spiegato, sarà necessaria una valorizzazione di parte del capitale umano entrato a tempo determinato con il PNRR: quindi, a valle del PNRR, devono esserci i margini per assumere alcune delle nuove risorse, tenendo conto anche del prevedibile turnover, che abbiamo quantificato. È anche necessario tenere conto della nuova legge 79 del 30 giugno scorso, che ha modificato le regole di ingresso in preruolo nelle università e negli istituti di ricerca.
Quanto ai bandi, anche qui come già detto, bisogna mettere a punto un sistema nazionale diffuso di finanziamenti alla ricerca, che ora è largamente insufficiente e altalenante. Abbiamo articolato la proposta in modo da tenere conto dei vari modelli possibili di finanziamento. Il PRIN dovrebbe essere il modello della ricerca collaborativa tra comunità, con regole che quindi potrebbero anche essere adattate alle esigenze delle aree scientifiche. Inoltre, abbiamo evidenziato la necessità di rafforzare i bandi FIS e FISA. Poi, vi sono quei progetti che hanno avuto una valutazione estremamente positiva, sopra soglia, nei programmi internazionali di ricerca, ma non sono riusciti a vincere. Tenere in considerazione questa valutazione può offrire un buon modo per selezionare progetti validi e competitivi anche internazionalmente. Inoltre, sapere che c’è la possibilità di una seconda chance a livello nazionale può fungere da incentivo per ricercatrici e ricercatori a concorrere in bandi internazionali di finanziamento.
Infine, per quel che riguarda le infrastrutture di ricerca, all’interno del Tavolo Tecnico abbiamo potuto contare sulla collaborazione di alcuni esperti di infrastrutture, in particolare il professor Francesco Loreto dell’Università Federico II di Napoli e Ariela Benigni, dell’Istituto di ricerche Mario Negri. La direzione nella quale si sta andando, lo vediamo anche con il PNRR, è quella di risorse distribuite, al servizio della comunità scientifica in senso lato, come per Human Technopole. Quindi, si tratta di creare non solo infrastrutture per singola realtà territoriali, ma soprattutto, anche in considerazione dei costi talvolta consistenti, di fornire supporto a più comunità scientifiche. Anche a livello europeo, si sta spingendo in questo senso, per la condivisione non solo di attrezzature scientifiche ma anche di pubblicazioni, dati e codici software.
Un ulteriore punto è quello della valutazione
È un tema molto difficile. Non intendo discutere la numerologia, l’utilità di strumenti come gli indicatori bibliometrici o gli indicatori semiautomatici, cui è inevitabile far ricorso quando si devono considerare grandi quantità di dati. Però bisogna tener conto, anche qui, delle grandi specificità, di grandi variabilità all'interno dei diversi settori scientifici. L’utilizzo di questi strumenti per la valutazione a volte, purtroppo, produce una grande capacità di adattarsi alle regole: una volta che si capisce a quali regole bisogna attenersi per avere una valutazione positiva ci si conforma ad esse, ma non sempre questo conformismo è positivo, talvolta è del tutto strumentale. Ribadisco, non nego l’importanza e l’utilità di certi strumenti, ma è necessario che ci sia una sorta di camera di compensazione che prevenga gli abusi e tenga conto di particolari specificità, non delegando tutta la responsabilità delle decisioni ad automatismi. Peraltro, errori nell’attuale sistema di valutazione oggettivamente ci sono, faccio un esempio banale: il caso delle monografie. Nell’attuale sistema, una monografia conta come un articolo, ma chiunque lavori in un ambito come il mio, o in molti altri come le scienze umanistiche, sa benissimo che scrivere un libro è spesso ben altra impresa dallo scrivere un articolo. Eppure, i due prodotti sono equiparati, e questo può portare un giovane autore a spacchettare una monografia di cinque capitoli magari in cinque articoli distinti, che valgono ben di più ai fini della valutazione. Queste distorsioni producono perdite di valore nella produzione scientifica e culturale del Paese.
Come vede il futuro della ricerca in Italia?
Domanda impegnativa. Io continuo a credere che la ricerca in Italia abbia enormi potenzialità, e non solo perché la guardo da una prospettiva privilegiata, come direttore della Scuola Normale Superiore, ove incontro moltissimi ricercatori e ricercatrici brillanti. Il nostro sistema di formazione, anche quello pre-universitario, continua a funzionare bene, e quello della ricerca, nelle università e negli enti, è ricco di punte avanzate: abbiamo tutte le potenzialità. Quello che continuiamo a scontare è un deficit terribile a livello di internazionalizzazione. Porto un esempio dei più semplici: ancora oggi avere riconosciuto in Italia un titolo di studio universitario conseguito all’estero, anche in paesi che consideriamo avanzati, è un’impresa difficilissima, che può anche richiedere lunghi e complessi passaggi ministeriali. È come se avessimo delle remore, degli anticorpi verso l’internazionalizzazione, che dobbiamo assolutamente combattere perché questo è uno dei nostri maggiori freni. Dobbiamo superare l’eccessiva burocratizzazione, a favore di maggiore trasparenza, semplificazione e responsabilizzazione. Se vogliamo conquistare il capitale umano, se vogliamo che il nostro Sistema Ricerca diventi davvero competitivo a livello internazionale, dobbiamo superare questa nostra chiusura.