E’ stata pubblicata da Nature Astronomy una nuova analisi dei dati raccolti dal satellite Planck, che potrebbe mettere in discussione alcuni presupposti fondamentali della nostra attuale visione dell’Universo.
Lo studio, condotto dal team internazionale guidato dal fisico Alessandro Melchiorre della Sapienza Università di Roma e dell’INFN, ha analizzato la mappa, prodotta da Planck, del fondo cosmico a microonde (CMB), che restituisce una sorta di ‘fotografia’ primordiale dell’universo, così com’era 380.000 anni dopo il Big Bang. Mappe analoghe di questa radiazione primordiale, e in particolare delle sue anisotropie e disomogeneità, erano già state ottenute dall’esperimento Boomerang e dal satellite WMAP. La missione Planck dell’ESA in colaborazione con ASI e NASA, attiva dal 2009 al 2013, ha però raggiunto precisione e sensibilità mai ottenute in precedenza.
E proprio grazie alla grande sensibilità di Planck lo studio pubblicato su Nature Astronomy è riuscito a stimare con maggiore precisione la distorsione gravitazionale della radiazione cosmica di fondo, dovuta alla materia oscura dell’Universo.
Questa misura, secondo i risultati pubblicati da Melchiorri e dai suoi colleghi, indicherebbe una densità di materia nel cosmo superiore a quella misurata fino ad oggi, con delle conseguenze dirompenti per gli attuali modelli cosmologici. Se così fosse, infatti, l’universo, non potrebbe più essere piatto, così come supposto dagli scienziati fino ad oggi, ma dovrebbe piuttosto essere curvo. Se il nostro cosmo avesse solo due dimensioni vorrebbe dire passare da un cosmo che si estende su un piano infinito, ad uno confinato sulla superficie di una sfera. Qualcosa di analogo avverrebbe con la forma tridimensionale dell’universo, che risulterebbe comunque ‘chiusa’, anche se più difficile da visualizzare.
“I nuovi dati ottenuti da Planck – spiega Alessandro Melchiorri, – mostrano che l’universo è solo il 4% più curvo di quanto si pensasse. Questa percentuale è però sufficiente a creare una discordanza con le rimanenti osservazioni astrofisiche, mostrando tensioni e differenze. Ovviamente c’è ancora la possibilità che un effetto sistematico ancora non rivelato sia alla base delle discrepanze osservate – afferma Melchiorri – Esperimenti di anisotropie futuri quali il Simons Observatory chiariranno sicuramente la situazione. La porta per una rivoluzione in cosmologia sembra però ora aperta ed i prossimi esperimenti potrebbero portare risultati ancora più esaltanti”.
“Questo studio mostra ancora una volta l’enorme ricchezza d’informazione della più antica “immagine” che abbiamo del nostro Universo. Si tratta, però, di un’analisi di un set piuttosto limitato di dati – ha commentato il vicepresidente dell’INFN, Antonio Masiero - i cui risultati verrebbero a mettere in discussione l’intero impianto della teoria standard dell’origine e dell’evoluzione dell’universo. D’altra parte, il fatto che i risultati di questo lavoro appaiano in flagrante contrasto con le conclusioni tratte da molti altri dati osservativi, induce alla cautela e soprattutto richiama alla necessità di avere molti altri nuovi e precisi dati a disposizione. La ricerca italiana, con l’INFN insieme con ASI e INAF, è in prima linea su questa frontiera della conoscenza sia come studio teorico che come partecipazione ai più significativi progetti internazionali (ad esempio LiteBIRD) per lo studio della radiazione di fondo cosmica con esperimenti nello spazio.